POEMAS TRADUZIDOS
DE
NILTO MACIEL
Índice
La Ricerca Dell’Interiorità Nella Poesia di Nilto Maciel (Angelo Manitta)
Navegador/Navigatore
Trabuco/Mortaio
Passagem /Passaggio
Pretensão /Pretesa
O tempo/Il Tempo
Sonho/Sogno/Reve
Tal Como Ensinou Epicuro/Tel Que L’Enseigna Epicure
Que Fosse/Qui Fut
Progresso/Progres
Duende/Lutin
Com os Pés no Chão/Avec les Pieds par Terre
Amanhança/Auroral
Prof-ética/Pro-phétique
Saudades/Tout passe
Calvário/Calvario
De Desaparições e de Ruínas/De Desapariciones y de Ruinas
Francisca/Francisca
Arco-íris/Arco iris
Choro/Polka
LA RICERCA DELL’INTERIORITÀ NELLA POESIA DI NILTO MACIEL
Angelo Manitta
“Navegador” è una delle più belle e singolari sillogi di poesie di Nilto Maciel, poeta brasiliano che predilige l’astrazione e la metafora: il navigatore è l’uomo che con i suoi occhi scopre il mondo. La predilezione per l’astrazione è già visibile scorrendo soltanto alcuni titoli delle sue liriche: Sogno, Odissea interiore, Riflessioni, Illusioni, Insonnia, Destino, Immagini, Apocalisse. La poesia scorre sul sottile filo della introspezione. Il poeta, infatti, sa guardare dentro di sé come dentro ogni uomo, perché suo intento è rappresentare l’uomo universale e proprio questa sua universalità lo rende grande. Francisco Carvalho, uno dei più importanti poeti brasiliani contemporanei, nel libro “Textos & Contextos” dedica uno studio alla sua opera scrivendo che egli è, senza alcun dubbio, uno dei nomi più rappresentativi della moderna letteratura brasiliana. Autore di racconti, romanzi o poesie, rivela la straordinaria versatilità del suo talento creativo. Egli è un ammirevole scrittore in quanto possiede capacità, immaginazione, invenzione, tecnica narrativa ed espositiva, proprio come deve possedere un buon narratore. L’intreccio della sua finzione è un complesso ingegnoso di contenuti essenziali, sapendo con grande abilità condurre la narrazione o risolvere armoniosamente le situazioni immaginate.
Bellissima in tal senso ed emblematica è la poesia “Navegador” che dà il titolo all’intera silloge. Gli occhi ciechi navigano, alla sprovvista, in un mare in tempesta, quasi sperdute imbarcazioni senza timone. Ma quegli occhi, che diventano muti, sanno intravedere le onde che generano la tempesta. Proprio quegli occhi, che in una terza fase diventano sordi, sanno anche mostrare canti di dolore, di morte e di solitudine. Il linguaggio metaforico qui è molto chiaro. Il navigatore è l’uomo che deve affrontare la vita quotidiana e tutti i suoi pericoli, non solo fisici, ma pure sentimentali, politici e sociali. L’uomo ogni giorno si imbatte in mille problemi. Ma alla fine raggiunge la pace e la quiete interiore. La poesia richiama un’ode del grande poeta latino Orazio: «O navis, referent in mare te novi / fluctus. O quid agis? Fortiter occupa / portum. Nonne vides ut / nudum remigio latus / et malus celeri saucius Africo / antemnaeque gemant…?» che significa: «O nave, nuovi flutti ti spingono in alto mare. Che fai? Entra subito nel porto. Non vedi come il tuo fianco è scoperto e l’albero è ferito dal veloce vento mentre le antenne gemono?». La poesia di Maciel, come spesso quella di Orazio, è una poesia tutta volta all’infinito. Malgrado le tempeste e le sofferenze interiori alla fine è la quiete a prevalere.
(Jornal “Il Convivio” n.º 3, ottobre-dicembre 2000, Castiglione di Sicilia, Catania, Italia)
NAVEGADOR
Meus olhos cegos, que não vêem naves,
navegam pelos mares das tormentas
– perdidos barcos, rotos, sem timão.
Meus olhos mudos só vislumbram vagas,
doida babel de tempestades feita,
monstros marinhos, oceano largo.
Meus olhos surdos só conseguem ver
cantos de dor, de morte e solidão,
a minha própria imensidão de ser.
NAVIGATORE
I miei occhi ciechi, che non vedono nave,
navigano sui mari in tempesta
- perdute imbarcazioni, rotte e senza timone.
I miei occhi muti intravedono solo onde,
pazza babele fatta di tempeste,
mostri marini, oceano largo.
I miei occhi sordi vogliono solo percepire
canti di dolore, di morte e solitudine,
la mia propria immensità dell’essere.
(Traduzione di Angelo Di Mauro e publicado na revista “Il Convivio” n.º 1, 2001, Castiglione di Sicilia, Catania, Italia)
TRABUCO
Essa palavra é feia
nos ossos estilhaçados
que o tempo roeu.
Essa palavra leia
nos escritos coloniais
de padres e escrivães.
Essa palavra é teia
nos meus olhos amargados
de tanto vê-la e perdê-la.
Essa palavra é dura
feito achas de pau-brasil
nos ombros de meus avós.
Essa palavra cura
o sono dos iludidos,
bem-aventurados e vivos.
Essa palavra é pura
no vocabulário dos leigos
leitores de hipocrisias.
Essa palavra dói
na ponta de meus lábios
inchados e costurados.
Essa palavra rói
feito ácido na carne
torturada e estraçalhada.
Essa palavra sói
figurar no dicionário
da morte e do mais forte.
Essa palavra queima
feito tição de fogueira
debaixo da sola dos pés.
Essa palavra teima
em verrumar meus ouvidos
com seu estrondo constante.
Essa palavra é reima
que não se trata
com meizinha ou bruxaria.
Essa palavra rouca
ressoa debaixo do chão
feito tiro de canhão.
Essa palavra louca
me trancafia a alma
nos corredores da dor.
Essa palavra pouca
retumba em meu coração
feito pancada de cão.
Essa palavra à toa
percorre minha ilusão
e a mata de inanição.
Essa palavra soa
feito vôo desesperado
no espaço da escuridão.
Essa palavra é loa
no canto dos assassinos
de meu irmão de nação.
Essa palavra boa
viaja em minha oração
de vingança nativa.
Essa palavra reboa
nas tumbas escurecidas
e grita sua nova versão.
Essa palavra inda fura
meu peito de desespero
na hora de decliná-la.
Essa palavra, irmãos,
é arma de morte
com que hei de me viver.
MORTAIO
Questa parola è brutta
nelle ossa frantumate
che il tempo ha corroso.
Questa parola è letta
negli scritti coloniali
di preti e scrivani.
Questa parola è ragnatela
nei miei occhi amareggiati
da tanto vederla e perderla.
Questa parola è dura
come asce di legno-brasile
sulle spalle dei miei nonni.
Questa parola cura
il sonno degli illusi
fortunati e vivi.
Questa parola è pura
nel vocabolario dei laici
lettori di ipocrisie
Questa parola fa male
sulla punta delle mie labbra
gonfie e cucite.
Questa parola rode
come un acido sulla carne
torturata e malridotta.
Questa parola sta di casa
nel dizionario
della morte e del più forte.
Questa parola brucia
come un tizzone di brace
sotto la suola dei piedi.
Questa parola si ostina
a rovinare il mio udito
col suo fragore costante.
Questa parola è un reumatismo
che non si cura
con decotti o fatture.
Questa parola sorda
si sente sotto il pavimento
come un colpo di cannone.
Questa parola pazza
mi trafigge l’anima
nei corridoi del dolore.
Questa parola insufficiente
rimbomba nel mio cuore
come una legnata a un cane.
Questa parola inutile
percorre la mia illusione
e la uccide di inanizione. .
Questa parola suona
come un volo disperato
nello spazio del buio.
Questa parola è lode
nel canto degli assassini
del mio fratello di patria.
Questa parola bella
viaggia nella mia prece
di vendetta nativa.
Questa parola ribolle
nelle tombe annerite
e urla la sua nuova versione.
Questa parola ancora buca
il mio petto di disperazione
nell’ora di declinarla.
Questa parola, fratelli
è arma di morte
con cui debbo darmi vita.
(Traduzione di Paolo Padovani.; publicado em “Il Majakovskij” n.º 36, 2000, Laveno Mombello, Varese, Italia)
PRETENSÃO
Quero deixar meu rastro,
meu pé no chão gravado,
uma qualquer pegada,
minha sombra talvez.
Não quero partir em vão,
como a fera que se vai
sem presa alguma pegar
– ave de rapina débil
que ninho nenhum destrói.
Quero deixar meu longo grito,
feito um trovão de ensurdecer,
gravado inteiro nos ouvidos
desta floresta de meus dias.
Não quero a vida deixar assim
tão docemente, como se fosse
ao bosque andar e nele morar.
Quero voar pro Nada, sim senhor,
porém de tudo quero um pouco, mesmo
da dor, porém da dor de ser, da dor
de não ficar e eternamente ser.
PRETESA
Voglio lasciare la mia traccia
imprimendo il mio piede nella terra,
una traccia qualunque,
la mia ombra forse.
Non voglio partire invano,
come la fiera che se ne va
senza prendere alcuna preda
uccello rapace debole
che nessun nido distrugge.
Voglio lasciare il mio lungo grido,
come un tuono assordante,
imprimendo del tutto le nostre orecchie
di questa foresta dei miei giorni.
Non voglio lasciare la vita cosi’
cosi’ dolcemente, come se andassi
al bosco e li’ rimanessi.
Voglio volare verso il Nulla, si’ signore,
pero’ di tutto voglio un po’, perfino
del dolore, del dolore di essere pero’, del dolore
di non restare e eternamente essere.
(Trad. di Giovanni Villa)
PASSAGEM
Que importa
se é de ouro
ou madeira
a porta
por onde passam
o garimpeiro e o lenhador,
se o que sentem ambos
é não saberem
aonde vão?
PASSAGGIO
Che importa
se è d’oro
o di legno
la porta
per dove passano
il cercatore d’oro e il boscaiolo,
se quello che sentono entrambi
è lo stesso dolore di sempre?
(Trad. di Giovanni Villa)
O TEMPO
Não passa o tempo lento
que a gente nunca vê.
É como o vasto vento
que passa na tevê.
Frio cedo fazia,
faz agora calor.
Antes tudo doía,
já nem me dói a dor.
Tempos idos sonhei,
ninguém me viu sonhar.
Hoje, que me acordei,
não sei como acordar.
Faz anos fui nascer.
Ninguém me percebeu.
O destino a não ser,
e eu mesmo, apenas eu.
O tempo corre, corre,
e desce, sobe, desce,
e, enquanto a gente morre,
ele desaparece.
IL TEMPO
Il tempo e’ lento a passare
e noi non lo vediamo mai.
E’ come il grande vento
che si vede in tivu’.
Há fatto freddo presto
e ora fa caldo.
Prima tutto era dolore,
ora non sento piu’ il dolore.
Qualche tempo fa sognavo,
ma nessuno mi há visto sognare.
Adesso che mi sono svegliato,
non so come svegliarmi.
E’ da tanto che sono nato.
E nessuno si ricorda.
Il destino e’ non essere,
ma solo io, appena io.
Il tempo passa in fretta,
e scende, sale, scende,
e quando noi moriamo,
lui sparisce.
(Trad. di Maria da Conceição Silveira)
SONHO
E eu, que sou rei, porém rei
desta incoerência, quebro
copos de fino cristal
e rio da sisudez
dos inúteis soberanos.
E fujo para o quintal
de mim mesmo – sujo e puro –
e ergo altar de pedra tosca
para o deus da hediondez.
No quintal planto a semente
da brandura, mansidão.
Duro chão de minha tez.
Após, me elevo e debando
para o céu da fantasia.
SOGNO
Ed io, che sono re, ma re
di questa incoerenza, spezzo
vetri di fino cristallo
e me la rido della gravità
degli inutili ricordi.
E fuggo nel giardino
di me stesso - lurido e puro -
e innalzo un altare in pietra grezza
al dio dell orrido.
Nel giardino spargo il seme
della dolcezza, della mansuetudine.
Duro suolo del mio volto.
Poi vado in estasi e fuggo
nel cielo della fantasia.
(Trad. di Angelo Di Mauro, in jornal "Il Convivio" n.º 1, aprile-giugno 2000, Castiglione di Sicilia, Catania, Italia.)
REVE
Et moi qui suis roi, quoique roi
de cette incohérence, je brise
des verres de fin cristal
et ris de la gravité
des inutiles souverains.
Et je fuis dans le jardin
que je suis – sale et pur –
et je dresse un autel en pierre brute
au dieu de la hideur.
Dans le jardin je mets en terre la semence
de la douceur, mansuétude.
Dur sol de mon teint.
Puis je m’élève et je m’enfuis
dans le ciel de la rêverie.
(Traduction: M. A. Lopes)
COMO ENSINOU EPICURO
Vasto quintal onde me refugio
na noite escura onde o silêncio manda.
Quintal onde me abrigo, fugitivo,
da tempestade que me colhe cedo,
mal nasce o dia e bem sucumbo tarde.
Essa terrível coisa que me punge,
monstro sem cor chamado solidão,
aquela dor mortal porém eterna.
Quintal onde me escondo de mim mesmo,
quando de noite o mundo se recobre,
para fugir da fera que me caça,
lobo instalado em minha cama bruta.
Quintal onde me enterro vivo e só,
um palmo além da plana superfície
e onde me sinto como se estivesse
no meio do universo e do infinito,
isto que chamo tudo e chamas Deus
& 61485.; a tua só e pura existência.
TEL QUE L’ENSEIGNA EPICURE
Vaste jardin où je me réfugie
dans une nuit obscure où le silence ordonne.
Jardin où, fugitif, je m’abrite
de la tempête qui me surprend de bonne heure,
mal né le jour, bien accablé le soir.
Cette terrible chose qui m’afflige,
monstre sans couleur nommé solitude,
cette douleur mortelle et pourtant éternelle.
Jardin où je me cache de moi-même
lorsque de nuit le monde se recouvre
pour fuir le fauve qui me chasse
loup installé dans ma couche grossiére.
Jardin où je m’enterre vivant et seul
un pied hors de la surface plane
où je me sens comme si j’étais
au milieu de l’univers et de l’infini
celui que j’appelle et que tu appelles Dieu.
ta seule et pure existence!
(Traduction: Jean Paul Mestas)
QUE FOSSE
Que fosse taça de bebida amarga
em noite de velório interminável,
e nunca uma sonata alegre e presta.
Que fosse copo de veneno doce,
minha cicuta, minha dor mortal,
jamais candura em ser essencial.
Que fosse o rum da embriaguez total,
e nunca a vida em lucidez vivida
nem a felicidade vã sonhar.
Que fosse morte, derradeiro fim,
e nunca amor, esse funesto amor,
feito somente de renúncia e dor.
QUI FUT
Qui fut coupe de beuvage amer
dans une nuit d’interminable veille,
et jamais sonate preste et joyeuse.
Qui fut coupe de vin doux,
ma cigüe, ma douleur mortelle,
et jamais candeur dans l’être essentiel.
Qui fut le rhum d’une ivresse totale
et jamais la vie lucidement vécue
ni le rêve allant à la félicité.
Qui fut la mort, la fin dernière,
et jamais amour, ce funeste amour
fait du seul chagrin et du renoncement.
(Traduction: Jean Paul Mestas)
PROGRESSO
Meu pai pastorava
os rebanhos de um coronel.
Dizem que morreu em paz
e subiu aos céus.
Eu vigio os carros da burguesia
pequena, média e grande.
Tenho fé em Deus
que tudo vai ser igual.
PROGRES
Mon père mêne paitre
les troupeaux d’un colonel.
On dit qu’il meurt en paix
et monte au ciel.
Je guette les voitures de la bourgeoisie
petite, moyenne et grande.
J’ai foi en Dieu
que tout va vers l’égalité.
(Traduction: Jean Paul Mestas)
DUENDE
Nenhum punhal traiçoeiro
me assassina,
nenhum veneno letal
me envenena,
nenhuma vil vilania
me envilece.
Nada me mata, nem deus,
nem matador por dever,
e viverei sobre as forças,
todos fuzis, vilanias,
armas, traições inimigas.
Feito um duende, estarei
eternamente a lutar
por minha humana feição,
mesmo sofrido e africano.
LUTIN
Aucun poignard perfide
ne m’assassine
aucun venin mortel
ne m’empoisonne
aucune vilenie
ne m’avilit.
Rien ne me tue, ni dieu
ni meurtrier d’office,
je vivrai au-dessus des forces,
tous fusils, vilenies,
armes, traîtrises ennemies.
Fait lutin, je serai
éternellement un lutteur
à ma façon humaine,
même patient et africain.
(Do livro Reflexos da Poesia Contemporânea do Brasil, França, Itália e Portugal, antologia organizada por Jean Paul Mestas, Universitária Editora, Lisboa, Portugal, 2000.)
COM OS PÉS NO CHÃO
José vagava de construção
em construção,
assobiando cançonetas
de todo tipo.
Às vezes até voava
de andaime a andaime,
feito um anjo feliz.
Embevecidos, riam todos,
do engenheiro ao mestre de obras,
e até o dono daquilo tudo.
Um dia José inventou de escorregar
e ir ao chão.
Desde então
ninguém mais riu
de sua cabeça torta,
pendendo para a esquerda.
Hoje ele faz piquetes
e grita bem alto
& 61485.; operários de todo o mundo,
uni-vos.
AVEC LES PIEDS PAR TERRE
José vaguait de bâtiment
en bâtiment,
sifflant
toutes sortes de chansonnettes.
Parfois même il volait
d’un échafaudage au suivant,
devenu ange heureux.
Extasiés, tous riaient,
de l’ingénieur au maître d’oeuvre
et même le maître de tout.
Il eut un jour l’idée
de déraper, alla au sol.
Dès lors, nul ne rît plus
de as tête difforme
pendant à gauche.
Aujourd’hui il fait des piquets
chante bien haut
— ouvriers de ce monde,
unissez-vous!
(Do livro Reflexos da Poesia Contemporânea do Brasil, França, Itália e Portugal, antologia organizada por Jean Paul Mestas, Universitária Editora, Lisboa, Portugal, 2000.)
AMANHANÇA
Como será nosso amanhã, criança?
O meu, o teu, o da vizinhança?
Talvez verde-esperança
como sempre
razão de viver.
Talvez branco-matança,
talvez negro black-power
soco na cara do branco.
Talvez amarelinho-da-silva.
Ou será vermelho-festança,
Criança?
Ou pura lembrança
de Ontem e de Hoje?
Como será nosso amanhã, criança?
Amanhança?
AURORAL
Comment sera notre avenir, enfant?
Le mien, le tien, celui du voisinage?
Peut-être vert-espérance,
peut-être tuerie-blanche,
peut-être noir
— black-power —
coup de poing dans la face du blanc.
Peut-être jaunet sauvage,
petit brésilien,
latino-américain.
Ou il sera rouge-fête joyeuse
ou pur souvenir
d’hier et aujourd’hui.
Comment sera notre avenir, enfant?
Auroral?
(Do livro Reflexos da Poesia Contemporânea do Brasil, França, Itália e Portugal, antologia organizada por Jean Paul Mestas, Universitária Editora, Lisboa, Portugal, 2000.)
PROF-ÉTICA
O poema é um punhal
que brilhará na carne
dos condes
cendentes.
Seus reflexos parirão
estrelas
que habitarão o céu.
Marinas cintilarão
como ametistas
nas bocas dos desvalidos.
Imensas pérolas de enfeite
da grande festa
anunciada.
Nas ruas novamente
habitadas por benjamins,
sorrisos, brisas
nos dentes de marfim,
onde se inscreverão
os versos dos decapitados.
PRO-PHÉTIQUE
Le poème est un poignard
qui brillera dans la chair
des condes
cendances.
Ses reflets enfanteront
des étoiles
qui habiteront le ciel.
Des marinas scintilleront
telles des améthystes
dans la bouche des disgraciés.
Immenses perles d’ornement
de la grande fête
annoncée.
Dans des rues récemment
habitées par des benjamins,
sourires, brises,
nos dents d’ivoire
où s’inscrivent les vers
des décapités.
(Do livro Reflexos da Poesia Contemporânea do Brasil, França, Itália e Portugal, antologia organizada por Jean Paul Mestas, Universitária Editora, Lisboa, Portugal, 2000.)
SAUDADES
(primeira estrofe)
Tudo passa, tudo passa.
Até as paredes largas,
As janelas e as portas.
TOUT PASSE
Tout passe, tout passe,
même les murs interminables,
les fenêtres et les portes.
(Da plaquete Brésil 500 Ans, editions Jalons, Nantes, France, juin 2000, trad. de Jean-Paul Mestas)
CALVÁRIO
Eu também já fui menino, Jesus.
E tive irmãos e tive pais e casa.
Andavam pelo chão formigas em
labores, procissões intermináveis.
Voavam gafanhotos e saltavam,
como se o céu limites não tivesse.
As gotas d’água fria em mim caíam
quando eu tocava um galho enverdecido.
Nas madrugadas ventos me levavam
e eu me perdia em nuvens de algodão.
Nos arrebóis do entardecer o sol
agonizava no calvário e
me dessangrava, como se eu finasse.
Eu também já fui menino, Jesus.
Lembro de meus irmãos adormecidos
no vendaval dos sonhos e perdidos
comigo e com você, que já crescera.
(13.09.96)
CALVARIO
Yo también ya fui niño, Jesús.
Y tuve hermanos y tuve padres y casa.
Andaban por el suelo hormigas en
labores, procesiones interminables.
Volaban langostas y saltaban,
como si el cielo límites no tuviese.
Las gotas de agua fría en mí caían
cuando yo tocaba un gajo enverdecido.
En las madrugadas vientos me llevaban
y me perdía en nubles de algodón.
En los arreboles del atardecer el sol
agonizaba en el calvario y
me desangraba, como si yo muriese.
Yo también ya fui niño, Jesús.
Recuerdo mis hermanos adormecidos
en el vendaval de los sueños y perdidos
conmigo y contigo, que ya crecieras.
(In Poesía de Brasil, volumen 1, organizado por Aricy Curvello e traduzido por Gabriel Solis, Proyeto Cultural Sur, 2000.)
DE DESAPARIÇÕES E DE RUÍNAS
Quando os dragões sumiram
por trás dos montes,
eu me quedei,
olhos fitos nos horizontes empardecidos.
Anoiteceu e ainda pude ver
suas sombras se diluindo,
e, com elas, toda a coorte do castelo:
princesas, fadas, bruxas e duendes.
Incontinenti, ruíram as muralhas
e um pó sem cor se fez no ar,
feito nuvens de tempestade.
Busquei sonhar.
No entanto, o leito não me comportou
e eu me senti tão só
que a noite nunca teve fim.
Tudo desapareceu,
tudo ruiu:
ruas e casas que habitei
e com elas meus passeios.;
cadernos de caligrafia
e com eles meus rabiscos.;
verbos no pretérito
e com eles o presente e o futuro.;
bares onde me inebriei
e com eles meus devaneios.;
amigos e seus ais
e com eles a sede de dizer.;
amadas e seus olhos
e com elas a fantasia.;
meus irmãos e suas vozes
e com eles os motivos de lutar.;
meu pai e minha mãe
e com eles o sentido de viver.
Tudo desapareceu,
tudo ruiu,
até que o próprio Deus sumiu.
E então tudo o que fora sólido
se espedaçou.;
tudo o que fora festa
se estiolou.;
tudo o que fora enigma
se elucidou.;
tudo o que fora nobre
se banalizou.;
tudo o que fora belo
se embaçou.;
tudo o que fora doce
se amargurou.;
tudo o que fora sacro
se aviltou.;
tudo o que fora eterno
se findou.;
tudo o que fora vida
em morte se tornou.;
tudo o que fora meu
roubou-me o tempo
e eu afundei num poço
em que não creio.
(9.8.97)
DE DESAPARICIONES Y DE RUINAS
Cuando los dragones desaparecieron
detrás de los montes
yo me quedé,
ojos fijos en los horizontes amarronados.
Anocheció y aún pude ver
sus sombras diluyéndose,
y, com ellas, toda la corte del castillo:
princesas, hadas, brujas y duendes.
Incontinenti, cayeron las murallas
y un polvo sin color se hizo en el aire,
como nubles de tempestad.
Busqué soñar.
Sin embargo, el lecho no me aceptó
y me sentí tan solo
que la noche nunca tuvo fin.
Todo desapareció,
todo se deshizo:
calles y casas que habité
y con ellas mis paseos.;
cuadernos de caligrafía
y con ellos mis esbozos.;
verbos en pretérito
y con ellos el presente y el futuro.;
bares donde me embriagué
y con ellos mis divagaciones.;
amigos y sus ays
y con ellos la sed de decir.;
amadas y sus ojos
y con ellas la fantasía.;
mis hermanos y sus voces
y con ellos los motivos de luchar.;
mi padre y mi madre
y con ellos el sentido de vivir.
Todo desapareció,
todo se deshizo
hasta que el mismo Dios se fue.
Y entonces todo lo que fuera sólido
se despedazó.;
todo lo que fuera fiesta
desfalleció.;
todo lo que fuera enigma
se elucidó.;
todo lo que fuera noble
se banalizó.;
todo lo que fuera bello
se empañó.;
todo lo que fuera dulce
se amargó.;
todo lo que fuera sacro
se envileció.;
todo lo que fuera eterno
se terminó.;
todo lo que fuera vida
en muerte se convirtió.;
todo lo que fuera mío
el tiempo me lo robó
y me hundí en un pozo
en que no creo.
(In Poesía de Brasil, volumen 1, organizado por Aricy Curvello e traduzido por Gabriel Solis, Proyeto Cultural Sur, 2000.)
FRANCISCA
Para minha mãe.
O corpo dela & 61485.; finas fibras de algodão.
Su’alma doce & 61485.; cana e mel nos descampados.
Francisca, franciscana, passarinho, abelha.
Materna e bela & 61485.; mãe dos meus penares: penas.
Seu frágil corpo e a terra tão pesada sobre
o esp’rito dela grande feito um vasto mundo,
voando aves, alves, alvas, alvacentas plumas
no espaço, o céu que cria Deus e a salvação.
Agora vago feito um vagabundo e espreito
estrelas, luzes, vãs quimeras, perdições
de quem viveu ou vive a acreditar no Nada.
E sonho ser aqui fiapo ou gota que
se busca, chama-se, perdido e apagado,
e a chama: mãe, me acende e me ilumina sempre.
FRANCISCA
Su cuerpo – finas fibras de algodón.
Su alma dulce – caña y miel en los descampados.
Francisca, franciscana, pajarito, abeja.
Maternal y bella – madre de mis penares: plumas.
Su frágil cuerpo y la tierra tan pesada sobre
su espíritu grande como un vasto mundo,
volando aves, albas, albeoladas plumas
en el espacio, el cielo que crea Dios y la salvación.
Ahora vago hecho un vagabundo y acecho
estrella, luces, venas quimeras, perdiciones
de quien vivió o vive no creyendo en la Nada.
Y sueño ser aquí hilacha o gota que
se busca, se llama, perdida y desvanecida,
y la llama: madre, enciéndeme y ilumíname siempre.
(In Poesía de Brasil, volumen 1, organizado por Aricy Curvello e traduzido por Gabriel Solis, Proyeto Cultural Sur, 2000.)
ARCO-ÍRIS
As árvores tocavam alaúde,
requebravam-se bailarinamente
ao escapar dos ventos e das nuvens.
As torres das igrejas e seus pássaros
& 61485.; geometrias ásperas, cadentes & 61485.;
desenho branco no reverso azul.
Azafamado, o homem nem sequer
via o menino ver sua partida,
a porta aberta, a rua, seu chapéu.
Quando chovia e o sol brilhava ainda,
via o menino o espectro das cores
nos olhos da menina que sorria.
E longe deles, onde os anjos moram,
o arco-celeste a cauda aberta em leque,
em cores se curvava sobre o mundo.
Os alaúdes não se tocam mais.;
há forcas pelos campos e cidades.;
morcegos voam pelas sacras naves.
O homem sumiu com seu chapéu de feltro
na curva da avenida, e, mais sisudo,
nem disse ao filho expectante adeus.
Do paraíso os anjos foram expulsos.
Desvaneceu-se o arco-íris, pouco a pouco.
Menina foi, menino foi & 61485.; partiram.
(31.8.98)
ARCO IRIS
Los árboles tocaban laúd,
se retorcían bailarinamente
al escapar de los vientos y de las nubles.
Las torres de las iglesias y sus pájaros
– geometrías ásperas, candentes –
dibujo blanco en el reverso azul.
Apresurado, el hombre ni siquiera
veía el niño ver su partida,
la puerta abierta, la calle, su sombrero.
Cuando llovía y el sol brillaba aún,
veía el niño el espectro de los colores
en los ojos de la niña que sonreía.
Y lejos de ellos, donde los ángeles viven,
el arco celeste la cola abierta en abanico,
en colores se curvaba sobre las sacras naves.
El hombre se fue con su sombrero de fieltro
en la curva de la avenida y, más sensato,
ni dijo al hijo expectante adiós.
Del paraíso los ángeles fueron expulsados.
Se desvaneció el arco iris, poco a poco.
Niña fue, niño fue – partieron.
(In Poesía de Brasil, volumen 1, organizado por Aricy Curvello e traduzido por Gabriel Solis, Proyeto Cultural Sur, 2000.)
CHORO
Antigamente eu ouvia
Jacó do Bandolim
e nem me lembrava do
passado.
Hoje ouço de novo
os choros dele.
E nem sei se os ouço,
tão sem ouvidos estou,
como se apenas ouvisse
uma valsa de antigamente.
POLKA
Uma volta io ascoltavo
Jacó do Bandolim
e non mi ricordavo
del passato.
Ascolto oggi nuovamente
le polke di lui.
E neppure so se le sento,
come se ascoltassi solamente
um valzer d’altri tempi.
(Trad. dal portoghese di Enzo Bonventre, Cecina, LI, Itália, 22/3/2002)
|